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Costume e società

È a Genova che Albert Camus scrisse la sua prima opera “La morte felice”

“Si smarrì poi nelle strade strette e piene di odori della città vecchia, lasciò che i colori urlassero per lui, che il cielo si consumasse sopra alle case sotto il suo peso di sole […]. Andò sulla strada che domina Genova e lasciò salire verso di lui in una lunga lievitazione, tutto il mare carico di profumi e di luci”

Dopo un viaggio per il centro Europa che lo porta a Praga, in Boemia e a Vienna, il protagonista del primo romanzo di Albert Camus, “La morte felice”, si ritrova nella città di Genova, di cui l'autore si era infatuato. Camus sceglie la Superba tra le tappe del suo viaggio e di quello del protagonista per seguire le orme del suo grande maestro Nietzsche che qui, ascoltando le note della “Carmen” di Bizet, aveva composto “Così parlò Zarathustra”. 

L’opera, scritto fra il 1836 e il 1838 e pubblicato postumo nel 1971, racconta la storia di Patrice Mersault, impiegato in un ufficio portuale, e della sua ricerca della felicità. Mersault incontra un uomo anziano, colto e molto malato, che gli indicherà la via per essere felici: il tempo. L’anziano Zagreus offre poi al protagonista il modo per raggiungere la felicità: ucciderlo per porre fine alle sue prolungate sofferenze. Nella teoria formulata da Zagreus il cammino della felicità inizia quindi dalla morte di un infermo, preludio di una morte felice.

Mersault partirà poi per un viaggio in giro per l’Europa. A Genova maturerà il desiderio di approdare di nuovo ad Algeri. Lì convivrà con tre amiche e poi sposerà una donna di cui non è innamorato, per stabilirsi in una casa sul mare dove, tra solitudine e contatto con la natura, ha modo di sperimentare una felicità complessa e abbandonarsi alla malattia. 

Ecco le parole con cui Camus descrive la sua esperienza a Genova:

“Sul treno che lo portava a Genova […] ascoltava le mille voci che dentro di lui cantavano verso la felicità […], l’esaltazione che agitava il mondo si univa all’entusiasmo del suo cuore. Il rumore del treno, il cicaleccio puerile che lo circondava nello scompartimento stipato, tutto ciò che rideva e cantava intorno a lui ritmava e accompagnava una specie di danza interiore che lo portò per ore, immobile, ai confini del mondo e finalmente lo scaricò, giubilante e interdetto in una Genova assordante, che scoppiava di salute davanti al suo golfo e al suo cielo in cui fino a sera lottavano il desiderio e la pigrizia".

E prosegue:

“Aveva sete, fame di amare, di godere e di baciare. Gli dei che gli bruciavano dentro lo gettarono in mare, in un angolo del porto dove assaggiò un miscuglio di sale e di catrame e perse l’orientamento a furia di nuotare. Si smarrì poi nelle strade strette e piene di odori della città vecchia, lasciò che i colori urlassero per lui, che il cielo si consumasse sopra alle case sotto il suo peso di sole e che i gatti si riposassero per lui nell’immondizia e nell’afa. Andò sulla strada che domina Genova e lasciò salire verso di lui in una lunga lievitazione, tutto il mare carico di profumi e di luci.

Chiudendo gli occhi stringeva la pietra calda su cui stava seduto e poi li riapriva su questa città in cui l’eccesso di vita urlava in un esaltante cattivo gusto. Nei giorni seguenti gli piaceva anche sedersi sulla scalinata che scende al porto e a mezzogiorno guardava passare sulla banchina le ragazze di ritorno dall’ufficio. […] Di sera incontrava per strada le stesse donne e le seguiva, con nelle reni la bestia calda del desiderio che si muoveva con selvaggia dolcezza. Per due giorni bruciò in questa inumana esaltazione. Il terzo giorno lasciò Genova per Algeri”.

(Albert Camus, La morte felice, 1936-1938)

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