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Luca Pastorino

Giornalista Genova Today

Se Zerocalcare parlasse genovese avrebbe lo stesso successo?

Il mantra di Secco si declinerebbe facilmente: "Me ne batto il belino, prendiamo la focaccia?". Ma avrebbe avuto lo stesso impatto dell'ormai celebre "A me nun me frega ncazzo, s'annamo a pija er gelato?"

Se Zerocalcare parlasse genovese avrebbe lo stesso successo? Forse no. Perché la parlata romanesca, che tanto ha fatto discutere nel frullatore social all'interno del quale siamo immersi ogni giorno, è sicuramente una cornice che impreziosisce un prodotto fatto più di contenuto che di apparenza (e già questo non è poco), ma è anche il suo tratto distintivo, la ragione del suo successo. Nonostante le critiche è stata proprio la parlata tipica delle borgate a far diventare 'Strappare lungo i bordi' una serie cult nel giro di pochi giorni dopo l'uscita. 

Se Zerocalcare parlasse genovese il mantra di Secco si declinerebbe facilmente: "Me ne batto il belino, prendiamo la focaccia?". Ma avrebbe avuto lo stesso impatto dell'ormai celebre "A me nun me frega ncazzo, s'annamo a pija er gelato?". Probabilmente no. E non solo perché oggettivamente la parlata romanesca è molto più sdoganata a livello nazionale e in televisione, ma anche e soprattutto perché racconta alla perfezione l'universo intimista di Zerocalcare, la sua adolescenza e il suo mondo. 

Certo, potrebbero essere solo dettagli, perché la storia di Michele Rech (vero nome del fumettista autore e voce della serie di Netflix) reggerebbe probabilmente con qualsiasi dialetto o parlata, ma la sua forza è racchiusa proprio nel suo essere estremamente "verace" e la scelta linguistica contribuisce al definitivo salto di qualità facendola diventare un fenomeno cult a livello nazionale. La serie funziona perché fa ridere, fa piangere e fa riflettere affrontando un tema delicatissimo senza appesantirlo e, soprattutto, senza cadere nella facile retorica o nel pietismo. Non era facile. 

Ma tra i punti di forza di 'Strappare lungo i bordi' c'è anche il racconto di una generazione, quella che si sta avviando verso gli “anta”, precaria per sua stessa definizione, disillusa ma resiliente, che cerca di dialogare con la propria coscienza per esorcizzare le proprie paure. Una generazione di passaggio tra quella analogica e quella digitale, prima troppo giovane e poi di colpo troppo vecchia, fuori tempo per sua stessa definizione. E allora, se Zerocalcare fosse stato genovese, forse, avrebbe 'mugugnato' ancora di più, ma non avrebbe avuto lo stesso successo.   

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