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Costume e società

Genova in poesia: Boccadâze e le rime in dialetto di Edoardo Firpo

“O Boccadasse, quando si scende a te / uscendo dal subbuglio della città, / si ha l’impressione di ritornare nella culla, / o di cadere fra le braccia d’una madre. / Pare che si sciolga un po’ l’ansia della vita / sentendo come lì si sian fermate / nella bella intimità della marina / la tua pace antica e la tranquillità” scriveva il poeta

Nato nel 1889, Edoardo Firpo era un poeta e pittore genovese, che per guadagnarsi da vivere lavorava come accordatore di pianoforti. Ha vissuto una vita semplice, riservata, pur essendo entrato in contatto, a Genova, con importanti intellettuali del Primo Novecento come Guido Gozzano, Eugenio Montale (che nel 1935 scrisse la prefazione alla sua seconda opera "O fiore in to gotto"), Camillo Sbarbaro e Giorgio Caproni. Fine conoscitore della letteratura genovese antica, fu anche membro, fin dall’anno di fondazione del 1923, dell’Associazione A Compagna, ancora attiva a Genova. Convinto oppositore del fascismo, fu detenuto nella Casa dello studente e condannato alla deportazione, anche se rilasciato dopo un mese. Una lapide con inscritta una sua poesia in memoria dei partigiani è sulla chiesa dedicata a Sant’Antonino, poco distante dal cimitero monumentale di Staglieno. 

Il paesaggio ligure ebbe un forte peso sulla sua ispirazione poetica. La lingua genovese, con la sua asprezza, riesce ad essere musicale in poesia. I temi sono spesso ripresi dal Decadentismo e Simbolismo e le immagini evocate si riferiscono a momenti significativi del suo vissuto, come nel caso di Boccadâze. Il testo della poesia, dedicata al piccolo borgo marinaro, è inciso su una targa presente proprio a Boccadasse, che cita:

“De votte succede che tra onda e onda

se stende comme un’improvvisa calma;

e in te l’aia impregnà de bon arsilio  

no resta che un silensio un po stupio.

A poco a poco sento nasce in gìo    

voxi velae, poi sbraggi de figgèu,

chi scava in te l’aenin, chi zèuga allèa,

chi travaggia a ’na barca, chi a ‘na rae;  

unna galinn-a a crocca in sce ’na proa,

un’atra a pitta l’aiga da-a scuggèa.           

Dormiggia un gatto in meso a due bibbinn-e,         

pisaggia unna veggetta sorva a un scain; 

chi èuggezza da un barcon, chi sta in sce-a porta      

a gòdise l’odò do vento maen;

chi tegne o chèu in te rèuze, chi in te spinn-e,        

chi in mille moddi a vitta se conforta.          

O Boccadaze, quando a ti se chinn-a

sciortindo da-o borboggio da çittae,

s’à l’imprescion de ritorna in ta chinn-a

o de cazze in te brasse d’unna moae.

Pa che deslengue un po’ l’anscia da vitta

sentindo come lì s’eggian fermae

ne-a bella intimitae da to marinn-a

a paxe antiga e a to tranquillitae”.

Capita a volte che tra un’onda e l’altra

si formi come una bonaccia improvvisa;

scioglie le schiume presso la riva

e nell’aria impregnata di arsura

non resta che uno stupore silenzioso.

Poco alla volta sento sorgere intorno

voci velate, poi grida di fanciulli,

chi scava nell’arena, chi gioca a nascondino,

chi lavora a una barca, chi a una rete;

una gallina si crogiola su una prua,

un’altra becca le alghe sugli scogli.

Un gatto se la dormicchia tra due tacchine,

una vecchietta sonnecchia su uno scalino;

chi occhieggia da un barcone, chi sta sull’uscio

a inebriarsi dell’odore del vento marino;

chi ha il cuore fra le rose, chi fra le spine,

chi accetta comunque la vita che ha.

O Boccadasse, quando si scende a te

uscendo dal subbuglio della città,

si ha l’impressione di ritornare nella culla,

o di cadere fra le braccia d’una madre.

Pare che si sciolga un po’ l’ansia della vita

sentendo come lì si sian fermate

nella bella intimità della marina

la tua pace antica e la tranquillità.

(Boccadâze, 1935)

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