"Billy Budd marinaio": gli attori del carcere di Marassi al Teatro della Corte
I riverberi di quelle voci rabbiose e disperate, caratterizzate dalle mille sfumature di cui è capace la pazzia, non si sono ancora spenti nei corridoi del Padiglione 40 che già gli “Scatenati” sono pronti a riproporsi sotto la nuova veste di marinai, quasi a voler rendere reale quel loro viaggio immaginario che avevano improvvisato nella camerata dell’Ospedale Psichiatrico.
Ma anche in questo caso c’è qualcosa che non va: la maggior parte di loro sono stati imbarcati con la forza, siamo nel pieno di una guerra: la Rivoluzione francese ha appena nove anni, Wolfgang Amadeus Mozart è morto da appena sette… e uno dei marinai si chiama Billy Budd. Gabbiere di parrocchetto, bello, “solare”, si direbbe oggi, candido, gentile, ingenuo, entusiasta… la persona ideale per generare invidia in un più anziano superiore (non del tutto alieno da inconfessabili secondi fini) che, come la Regina cattiva di Biancaneve, decide di eliminarlo facendo circolare voci false e tendenziose sul suo conto, tacciandolo di fomentare un ammutinamento.
Gli ammutinamenti erano all’ordine del giorno in quel periodo ed erano prevenuti, combattuti e sedati nel sangue. Il malvagio si spinge fino al punto di esporre le proprie malignità al capitano, il quale non crede alle proprie orecchie: convoca Billy che, nell’udire tali e tante infamie e invitato dal capitano a discolparsi, perde l’uso della parola e atterra il calunniatore con un solo poderoso colpo in mezzo alla fronte, uccidendolo. Il capitano è un ottimo uomo prigioniero di pessime leggi, e la storia non avrà quello che si chiama un lieto fine, ma finirà comunque con una inaspettata catarsi: “Ucciso da un angelo di Dio! Tuttavia l’angelo va impiccato” mormora fra sé il capitano, subito dopo il fattaccio.
Billy Budd, dunque. Ultima fatica di Herman Melville, scritto nel 1891 ma rimasto ignoto ed inedito fino al 1924, parabola, discorso in forma di racconto. Perché questa scelta? Forse perché nella storia della Compagnia la nave è una costante metafora del luogo circoscritto e al tempo stesso un simbolo di libertà; forse perché, questa storia tutta al maschile, dove si formano gruppi e dove si mescolano caratteri diversi può anche essere ricca di spunti comici, ma soprattutto perché tutta la storia (quasi in risposta a Benjamin Britten) può trasmettere ed evocare sensazioni e situazioni attraverso il ritmo, la melodia, i cori. La musica è sicuramente il linguaggio più adatto per raccontare la paura, la tristezza, la rabbia, il bene e il male, il dolore e la gioia; e solo lei può spingersi fino al soprannaturale.