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Giovedì, 25 Aprile 2024
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Smart working prima, dopo e durante la pandemia: «Così Genova sta vincendo la sfida»

Il Comune aveva avviato già all'indomani dal crollo del ponte una campagna di sensibilizzazione all'utilizzo del lavoro agile, coinvolgendo pubblico e privato. Il lockdown non ha colto impreparati, ma ancora tanto c'è da fare: l'ex assessore Arianna Viscogliosi, promotrice del progetto, lo spiega

Tra i tanti aspetti della società e della vita di tutti i giorni che la pandemia da coronavirus ha cambiato, c’è anche il modo di lavorare. L’espressione “smart working”, che sino a qualche mese fa era conosciuta soltanto da una parte del mondo del lavoro, è adesso diventata di uso comune e si è meritata anche una menzione nei dpcm del governo sulle misure di contrasto alla diffusione del virus.

Il cosiddetto “lavoro agile” è infatti uno degli strumenti che il governo ha caldamente incoraggiato a utilizzare le aziende private, imponendolo invece al 50% per il pubblico. Un modo per limitare gli spostamenti e garantire l’ormai famosa distanza sociale, evitando di affollare mezzi di trasporto e posti di lavoro, sia durante il lockdown integrale, quando la necessità era di tenere a casa più persone possibile, sia in questi giorni (come da dpcm del 24 ottobre) in cui i contagi hanno iniziato a risalire vertiginosamente.

Smart working, Genova esempio virtuoso dal crollo del ponte

Lo spartiacque nel mondo del lavoro italiano è arrivato il 23 febbraio 2020, con l’approvazione di un decreto legge che imponeva il ricorso allo smart working nelle aziende in cui era possibile utilizzarlo. E se molte aziende e datori di lavoro, oltre che lavoratori, hanno dovuto iniziare a fare i conti con una realtà nuova che risponde a regole precise (anche se di fatto non del tutto regolamentate giuridicamente), a Genova l’impatto è stato meno potente che in altre città italiane. Questo perché già dalla caduta del ponte Morandi lo smart working era stato utilizzato da Comune e Regione per agevolare tutti quei lavoratori rimasti isolati a causa della rivoluzione della viabilità. Un lavoro che ha coinvolto pubblico e privato, affiancato dalla creazione di una figura unica nel genere in Italia, i “red worker”, lavoratori pubblici che in caso di allerte arancioni o rosse lavorano automaticamente da casa in sicurezza, senza dover prendere permessi o ferie.

“Mente” dietro la rivoluzione digitale del Comune di Genova è stata Arianna Viscogliosi, assessore al Personale e alle Pari Opportunità della giunta Bucci sino al settembre del 2019. Oggi Viscogliosi, avvocato per l’Ente Ospedaliero Galliera, continua a restare una fervente sostenitrice dello smart working, a patto che venga inteso come ciò che è: non lavorare da casa, ma lavoro agile, che sono due cose «molto diverse»

«Oggi al Galliera siamo in smart working al 50%, così come la Regione - spiega Viscogliosi -  più o meno tutti gli enti pubblici lo stanno utilizzando, a Genova non è una novità grazie al grosso lavoro fatto nel 2017-2018-2019, anni in cui avevamo già avviato un progetto di rete cittadina pubblico-privato in cui rientrava quasi tutto il pubblico sotto la regia del Comune, e poi Camera di Commercio, Università, Alisa, Asl 3, il Galliera e diversi privati: l’Istituto Italiano di Tecnologia, Siemens, Costa Crociere, Tim, Esaote, il Rina. Abbiamo creato una rete molto partecipata, ci incontravamo regolarmente per scambiarci le buone pratiche e abbiamo spinto un po’ all’utilizzo dello smart-working. Con il crollo del ponte avevamo già iniziato a pensare diversamente, e con il lockdown gli enti erano preparati».

Lockdown e smart working

Un ulteriore spinta a sfruttare lo smart working è arriva indirettamente tramite lockdown: se da un lato aziende pubbliche e private si sono viste costrette a ricorrervi, la delibera ha alleggerito soprattutto per il pubblico la procedura per chiederlo, e oggi, come spiega ancora Viscogliosi «è più facile per l’ente, che fa un provvedimento e i dirigenti dei vari uffici devono solo autorizzare le richieste dei dipendenti. E non possono rifiutarle: sino al 50% della forza lavoro deve essere in smart working».

La resistenza da parte dei datori di lavoro sul territorio genovese, ammette l’ex assessora, è stata parecchia: «Ho dovuto lavorare moltissimo con i direttori generale e i dirigenti delle varie strutture, spiegando le potenzialità e l’importanza di uno strumento che all’epoca non era ancora obbligatorio. Per il sindaco però era importante farlo, e c’era la richiesta di adeguarsi all’indicazione politica. Ho lavorato molto di sensibilizzazione e alla fine il progetto ha prodotto una rete molto ampia. L’emergenza covid è stata un acceleratore anche per lo smart working».

Anche la resistenza da parte dei lavoratori è stata vinta per cause di forza maggiori, e il dato interessante secondo una ricerca condotta da Variazioni (azienda mantovana specializzata in smart working che ha condotto uno studio sull’argomento ad aprile 2020) su un campione di 15.000 persone, quasi 9 lavoratori su 10 vorrebbero continuare a lavorare in smart working, mentre circa 8 manager su 10 ne consigliano l’adozione. Le ragioni sono diverse: non soltanto la possibilità di gestire e ottimizzare tempi e spazi, ma anche in termini di costi e risparmi economici (sopratutto per il datore di lavoro) e di impatto ambientale, con (per citare solo un aspetto) meno mezzi privati in circolazione per gli spostamenti.

Costi, straordinari, rimborsi: i nodi da sciogliere

Ovviamente restano molti nodi da sciogliere, e per Viscogliosi uno fondamentale è quello della differenza tra home working, che significa banalmente lavorare da casa, e smart working, che non sono sinonimi e non dovevo diventarlo né per il datore di lavoro né per il lavoratore: «Lo smart working non dovrebbe essere legato alla casa come luogo esclusivo di lavoro - sottolinea Viscogliosi - una persona in smart working dovrebbe lavorare ovunque, e se fossimo una città che fa molto marketing si potrebbe fare una campagna di sensibilizzazione, magari mostrando una persona con un computer al mare, spiegando che a Genova si può lavorare anche così».

Lo smart woking non dovrebbe insomma essere legato al luogo di residenza, né essere rigido in termini di orari e giorni, visto che il termine stesso indica “agilità”: «Quello che abbiamo vissuto in lockdown era emergenziale, e in molti casi era home working, perché è uno strumento di distanziamento. Il lavoro agile non dovrebbe essere applicato tutti i giorni della settimana - prosegue Viscogliosi - dovrebbe essere facoltativo e incentivato, prevedere la possibilità di scegliere quanti giorni usarlo e fornire luoghi in cui i lavoratori possono usare spazi comuni per riunioni e altre necessità».

Un esempio virtuoso è quello del Rina, che ha aperto una nuova, grande sede in via Cecchi con 400 dipendenti e meno postazioni: questo perché si basa su un sistema di turnazione che consente ai lavoratori di scegliere il giorno in cui andare in sede, e prende spunto dal modello nordico in cui si punta su spazi di coworking, in cui spesso non ci sono uffici affidati a singole persone ma uffici che possono essere prenotati in caso di necessità.  

«È chiaro che ci sono poi altri nodi da sciogliere - sottolinea Viscogliosi - Uno importante riguarda proprio gli spazi, è chiaro che durante il lockdown ci si è ritrovati a lavorare a casa, non in maniera ottimizzata e senza i giusti strumenti, magari con figli e compagni con cui fare i conti e dividere attrezzature e spazi. Ma lo smart working, se applicato nel vero senso della parola, funziona diversamente».

Un altro tassello da sistemare riguarda i costi: se per l’azienda si tratta spesso di risparmio in termini di spese vive - la luce, il riscaldamento, la mensa - per il lavoratore in alcuni casi possono aumentare, per installare una connessione abbastanza potente, per pagare bollette domestiche più care, per provvedere a pasti che possono, in regime di lavoro normale, arrivare da buoni pasto o mense.

«Al momento siamo in una fase molto primaria, e credo che i sindacati da questo punto di vista dovranno muoversi - prosegue Viscogliosi - Ci sono anche temi ancora più forti tra i privati, come il diritto alla disconnessione: ci sono persone che lavorano da casa e vanno avanti a oltranza, finendo per fare straordinari non riconosciuti né pagati. Nel pubblico invece ci sono garanzie, non sei sempre reperibile come capita in certi ambienti lavorativi. La legislazione in questo momento è molto indietro, ed è complesso e inopportuno parlarne adesso, momento in cui c’è un grande divario tra pubblico e privato. Quando la pandemia finirà e lo smart working verrà attuato come dovrà essere, in modo facoltativo e con garanzie, allora bisognerebbe mettere in campo tutte le conoscenze e dare una regolamentazione definitiva».

Genova, con la sua nomea di città “vecchia”, è in realtà molto virtuosa: «Abbiamo lavorato moltissimo - conclude Viscogliosi - soprattutto nell’ultimo anno del mio assessorato, avevo chiesto a Roma se potevamo essere riconosciuta come città più virtuosa, a marzo ci sarebbe addirittura stata la giornata nazionale dello smart working proprio da noi come riconoscimento».

Regione Liguria, a settembre l'85% dei dipendenti in smart working

I numeri, in Regione Liguria, confermano quanto detto sinora: a febbraio 2020 i lavoratori che svolgevano parte della prestazione lavorativa in smart working erano circa 80. All'inizio del lockdown, in pochi giorni, sono stati messi in smart working emergenziale oltre 1200 lavoratori, e al 15 settembre erano 1231, circa l'85% dell'intera forza lavoro dell'ente. Dopo il 15 di settembre sono state ripristinate le modalità ordinarie, 2 giornate alla settimana, (salvo gestire situazioni di contagio o potenziale contagio ed esclusi i lavoratori fragili che sono in smart working 5 giorni su 5) ma con alcune modifiche alla disciplina dell’istituto per renderne più flessibile la fruizione. 

A settembre è stato quindi chiesto ai dipendenti di aderire nuovamente in modalità semplificata all’istituto, e in pochi giorni sono arrivate oltre 1000 adesioni (1060 a oggi), corrispondenti a circa il 70% dei dipendenti. Anche la Regione sposa dunque una visione più agile del lavoro, quando possibile.

«Da lunedì 26 ottobre, tenuto conto dell’evolversi della situazione epidemiologica e come da decreto ministeriale, è stato aumentato il numero delle giornate di smart working fruibili a settimana da 2 a 3 per i lavoratori ordinari - spiega Paolo Sottili, direttore generale della Direzione Centrale Organizzazione di Regione Liguria - I numeri confermano che la fase di smart working emergenziale, pur con i suoi limiti, ha portato a un cambiamento profondo e irreversibile: ora occorre indirizzarlo e supportarlo perché non diventi un'altra forma di assistenza a situazioni di disagio ma favorisca l'affermazione di una nuova cultura manageriale e organizzativa nella pubblica amministrazione. Occorre proseguire in digitalizzazione dei processi, remotizzazione dei servizi e smaterializzazione degli archivi, mettendo a regime le infrastrutture digitali a supporto dello smart working, e poi fare formazione sulla gestione dei collaboratori a distanza e rafforzare la cultura della gestione per obiettivi. Occorre, inoltre, riprogettare gli ambienti di lavoro e pensare a spazi di coworking perché si possa lavorare da remoto in modo flessibile non necessariamente dalla propria abitazione».

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