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Coronavirus, il giovane volontario in prima linea contro il covid: «C'è chi ci chiama attori»

Paolo, 23 anni, racconta come sta vivendo la seconda ondata, gestendo oltre al lavoro anche chi non crede che ci sia una vera emergenza: «Chi non ci crede, venisse a fare un giro con noi»

«Ci chiamano attori, pensano che non siamo soccorritori, che andiamo in giro a seminare panico». Paolo ha 23 anni, da quando ne aveva 18 fa il volontario nella pubblica assistenza Croce d’Oro di Sampierdarena. Ha preso il posto di mamma e papà, e nella Croce «ci sono nato. Mi piace quello che faccio, ma non riesco davvero a capire cosa passi per la testa della gente».

Paolo è uno dei tantissimi volontari che sta fronteggiando la seconda ondata di coronavirus in Liguria, regione in cui i contagi salgono a livello vertiginoso. Ed è uno dei tantissimi volontari che spesso si ritrovano bloccati in coda con l’ambulanza davanti agli ospedali per il massiccio afflusso di persone che arrivano ai pronto soccorso. Sono giornate faticose, piene di tensione, che a 23 anni affronta con grinta e, quando può, con il sorriso. Ma c’è qualcosa che lo fa parecchio arrabbiare, ed è chi nega che ci sia una vera emergenza o, ancora peggio, taccia i soccorritori di allarmismo, come è più volte accaduto in questi giorni davanti a foto di ambulanze in coda.

«Il problema è che molta gente pensa sia tutta una finzione e che le foto e i video siano fake o vecchi, non capisco come sia possibile - riflette - Noi ormai viviamo le giornate consapevoli che il 99% delle volte, quando si esce in urgenza, è per un sospetto covid. La gente che non crede che sia davvero così dovrebbe venire a fare un giro con noi, io al Villa Scassi sono di casa e la situazione è peggiore della prima volta in termini di quantità di persone. Così è anche al San Martino e al Galliera».

A chi accusa i soccorritori (e le istituzioni, e i media) di fare allarmismo si aggiunge poi un problema che gli stessi dirigenti dei pronto soccorso e il presidente della Regione Giovanni Toti hanno più volte citato: il ricorso al pronto soccorso per sintomi influenzali leggeri, come febbre e raffreddore, che non richiedono di fatto un’assistenza emergenziale o ospedaliera.

«Il problema non è chi lavora in ospedale - sottolinea Paolo - loro fanno tutto quello che possono. Ci sono persone che chiamano per febbre o raffreddore, perché hanno paura, e vogliono andare in ospedale. Devo dire che i sintomi ora sono meno gravi, ma c’è molta più affluenza rispetto a marzo. Qualche giorno fa ho ricevuto una chiamata da un ragazzo della mia età, lavorava in una ditta che lo ha lasciato a casa dopo il tampone positivo. Ha richiamato l’ambulanza dopo dieci giorni che era a casa per andare all’ospedale e farsi fare il tampone, perché non sapeva come uscire di casa. Facciamo anche tante dimissioni covid, fortunatamente, portiamo a casa persone che continuano la degenza non in ospedale in modo da alleviare la pressione, oppure li spostiamo negli ospedali covid di Sestri e di Voltri».

Paolo e i colleghi ogni giorno fanno 20, 30 uscite, e spesso si ritrovano davanti ai pronto soccorso, in coda, sino a notte fonda. Giovedì sera si è fatto dare il cambio, ma i colleghi sono rimasti davanti al Galliera sino all’una di notte: «Gli ospedali dovrebbero essere più attrezzati. Mancano le barelle, gli infermieri, è un mix di cose che porta al collasso». E con una situazione così, gli chiediamo, tu hai paura?

«All’inizio, a febbraio, marzo, avevo paura - ammette - quando è scoppiata la pandemia ci hanno lasciato la scelta, se continuare o fermarci un mese e mezzo. Io avevo iniziato il servizio civile a gennaio, ho deciso di continuare, perché ho pensato “se resto a casa qui restano nella m….a, e anche la popolazione ne risente". Ora siamo preparati quando usciamo, se vai in casa ti metti la tuta protettiva, la cappa, la visiera, la mascherina. Quando è finito il servizio torni a casa tua e disinfetti tutto: io vivo con mio padre, è un cardiopatico e un soggetto a rischio, ma teniamo le distanze, prendiamo tutte le precauzioni, a malapena ci vediamo. Penso di parlare a nome di tutti: quando ci dicono che ci inventiamo le cose, davvero ci sentiamo presi in giro».

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