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Covid, nella giornata delle vittime il ricordo del direttore delle Rianimazioni: «Quella lunga fila di ambulanze un colpo al cuore»

Angelo Gratarola, coordinatore del Dipartimento Emergenza Urgenza regionale, ricorda l'esplodere della pandemia e una serata in particolare, quella che diede la portata dalla tragedia: «Oggi il personale è stanco, non ce la fa più»

18 marzo 2020. L’Italia è entrata in lockdown da meno di dieci giorni, la pandemia di coronavirus infuria, e negli ospedali liguri, come in tutti quelli iitaliani, gli operatori sanitari portano avanti strenuamente la resistenza all’attacco di un nemico invisibile e potentissimo.

Ogni giorno medici, infermieri e operatori socio sanitari arrivano al lavoro (sempre che se ne siano mai andati) stravolti e si calano in tute, mascherine, guanti nel tentativo di proteggersi e tenere in vita quante più persone possibile. Turni massacranti, ore in piedi a sudare sotto strati di tyvek e lattice, il contatto con i pazienti sofferenti ridotto solo alle fessure degli occhi, a un tocco della mano guantata.

18 marzo 2020. I morti in Italia quel giorno furono quasi 3.000 (2.978), in Liguria le vittime registrate furono 73. Al policlinico San Martino il compito di gestire il carico più pesante: hub regionale per l’emergenza coronavirus, a capo dell’equipe c’era, e ancora c’è, Angelo Gratarola, coordinatore del Dipartimento Emergenza Urgenza regionale. Suoi i tanti appelli rivolti ai cittadini affinché restassero a casa, al sicuro, per cercare di dare respiro agli ospedali. E nella giornata in cui si ricordano tutte le vittime e si celebra il lavoro degli operatori sanitari, Gratarola va inevitabilmente indietro col pensiero.

«C'è una cosa che ricordo ancora oggi con chiarezza e ogni tanto mi viene in mente - ammette - Era il 24 marzo, una sera, mancava poco alle undici ed ero nel piazzale dove sono montate le tende del triage, davanti alla camera calda del pronto soccorso. Ho guardato e ho contato 14 ambulanze in fila che aspettavano di scaricare i pazienti in zona triage. Questa lunga fila di ambulanze cariche di malati e sofferenza è stata per me il segno che eravamo davvero in grande difficoltà. Io sono un ottimista, non mi spavento perché è il mio mestiere, ma vedere quella fila di ambulanze, gli infermieri correre avanti e indietro con le bomboline dell'ossigendo per aiutare i paramedici, per me è stato il segno che il servizio sanitario era sottoposto a uno stress test mai conosciuto, e che stavamo vivendo la più grande tragedia sociale ed economica dal secondo dopoguerra».

Un'immagine che ricorre ancora, e spesso, a distanza di un anno. Dodici mesi attraversati con stati d'animo differenti: «Abbiamo avuto sensazioni e sentimenti diversi col passare del tempo - conferma Gratarola - L’anno scorso eravamo storditi, in questi giorni un anno fa eravamo increduli perché non sapevamo ancora la dimensione del problema, non sapevamo con cosa combattevamo e non avevamo terapie. Usavamo le conoscenze di altre malattie per gestire il virus, e l’ondata è stata così alta che ha messo a ferro e fuoco tutti gli ospedali del territorio nazionale, un po’ per debolezza del territorio, un po' per mancanza di preparazione a gestire un'epidemia di questo tipo».

All'incredulità è seguito un respiro di sollievo: «Due mesi dopo è finito tutto, sembrava a tarallucci e vino - riflette amaro Gratarola - abbiamo fatto se vogliamo le cicale per tutta l’estate, ci siamo protetti un po' meno, ma il virus ha continuato a è circolare, pur sotto traccia, sino a esplodere ancora a ottobre». E lì è arrivata la disperazione, la spossatezza «nel dover ricominciare da capo, nel dover rifare la tela di Penelope. I reparti chiusi sono sono stati riconvertiti - ricorda Gratarola - e riconvertirli è un problema perchè l'esercito che lavora in ospedale non ha riservisti, non ci sono persone che lavorano da altre parti e in caso di necessità gli si ridà l'uniforme per rispedirli al fronte. Bisogna cambiare la destinazione di quel reparto e di quella gente, che deve fare altro togliendo energie ad altre attività. E dobbiamo ricordare che la gente continua a morire principalmente per complicanze cardio-neuro vascolari e tumori: son questi i due principali killer, il coronavirus è un’altra cosa che ha disturbato gli ospedali nella loro attività quotidiana».

Oggi il sentimento prevalente è la frustrazone, che unita alla stanchezza attanaglia tutti gli operatori sanitari: «Questa malattia è lunga e noiosa da trattate, c’è poco di scientifico, esaurisce il personale medico e quello infermieristico soprattutto, che è ancora più in prima linea e a contatto con i pazienti. Mi auguro che questa terza ondata, se la vogliamo chiamare così o rigurgito di una seconda mai spenta, si riesca a controllare. Da un lato con comportamenti corretti da parte della popolazone, dall'altra con la campagna vaccinale».

Il via libera ad AstraZeneca da parte dell'Ema sarà in questo senso fondamentale, visto che Pfizer e Moderna hanno già avuto riscontri molto positivi: «Vaccinando gli anziani non abbiamo più avuto in pronto soccorso anziani che arrivavano dalle rsa - conferma Gratarola - l’età media del contagio si è abbasata, e abbassandosi le persone in ospedale vengono menol. Questo virus sembra proprio la Spagnola se lo andiamo a guardare: la Spagnola ebbe tre ondate, una violenta all’inizio che fece un bel po' di morti, poi la seconda, violentissima, con ancora più morti, e una terza piccolina. Poi si spense: speriamo di essere già verso questa direzione».

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